mostra personale: Love at first touch - Gehard Demetz,
05 - 27 Giugno 2009, ex Chiesa di San Francesco, Como

Schiocci di merli, frusci di serpi
di Cecilia Antolini

Del bambino hanno le proporzioni corporee, gli arti smilzi, la levigatezza del volto. Le sculture attraverso cui la ricerca di Gehard Demetz si snoda ormai da anni del bambino hanno anche le sembianze, ma quello che sanno trasmettere rimane molto lontano dalla leggerezza di cui solo l’infanzia è capace. L’oggetto in questione non è il gioco, non è la spensieratezza: nessuna concessione a tenerezza e retorica da età dell’innocenza. Quello che Demetz osserva, e sa mettere in scena con un’efficacia tale da rendere le sue sculture riferimenti più che solidi nel panorama dell’arte, è il fluire serissimo della vita che con il suo garbuglio di possibilità caratterizza l’infanzia come momento tanto esclusivo quanto tragico. Sempre sotto scacco, condannato ad essere colto e compreso sempre e solo una volta conclusosi. Ipnotizzati dal proprio destino in una sorta di tensione già nostalgica verso se stessi, i piccoli protagonisti dei lavori non nascondono una forma di silente aggressività, un’energia ipogea che spinge e prepara una reazione probabilmente inesorabile quanto inattesa. Hanno persino una certa marzialità, una solennità che il chiarore del legno paradossalmente vela eppure rimarca; ordinatamente allineati come nel caso di questa mostra, sembrano in marcia implacabile come un piccolo esercito. La riflessione che l’artista da tempo porta avanti con coerenza ha fulcro proprio in questo movimento progressivo, pericolosamente sospeso tra fatalismo e libero arbitrio. Il nucleo vivente di possibilità che ognuno incarna, con la sua indeterminazione e drammatica incertezza diventa il protagonista reale del lavoro. I volti delle sculture infantili sono stati a lungo caratterizzati da un rapporto ambiguo con l’età adulta in una relazione a tratti analogica a tratti oppositiva che costantemente ne accentuava il carattere irrisolto. In casi particolari l’artista ha scelto di esasperare questa dinamica, esplicitando nelle sembianze infantili i tratti di personaggi epocali della storia del Novecento. Sopra gracili corpi composti, con le camicie garbatamente abbottonate, ritroviamo così i lineamenti di Mao, quelli di Hitler e di John F. Kennedy. Sfidando un atteggiamento quasi pop cui sa comunque, saggiamente, resistere, Demetz trascina all’eccesso il punto critico che gli interessa: ciò che non è ancora pur essendo sempre stato, l’eco nietzscheana del “diventa ciò che sei” con le sue valenze tanto positive, di auspicabile e possibile coglimento reale di se stessi, quanto negative, nell’eventuale condanna di un destino già scritto. È allora sempre un Io in questione quello di cui si va parlando. E che sia quello dell’artista, quello del bambino scolpito o persino quello dello spettatore (noti prima Hitler o il bambino?), diventa una questione marginale. Essenziale è il carattere dinamico dell’Io chiamato in scena, che lo espone al rischio di impoverimento e morte; più importante è la sua natura stratificata, che lo sollecita a un esercizio di autoconsapevolezza ed espone al rischio di subire l’azione sotterranea di aree inesplorate. A questo riguardo le teorie di Rudolf Steiner hanno rappresentato a lungo suggestioni teoriche significative nella ricerca di Demetz. In particolare, l’idea che il diventare adulto privi l’individuo della facoltà di avvertire e far vivere l’inconscio, appiattendone in qualche modo la condotta, è qualcosa su cui l’artista ha riflettuto a lungo. Tutto il suo lavoro cresce, concettualmente ma anche materialmente, intorno a vuoti e parti mancanti che, proprio in quanto tali, sono costitutive dell’insieme. È un’estetica frammentaria quella in cui prendono corpo le sculture che, con il loro carattere modulare e parcellizzato, restituiscono non a caso un’idea tanto di produzione quanto di decostruzione. Non si potrebbe nemmeno dire esattamente se siano sul punto di sgretolarsi o prender corpo. Il non-finito, cifra estetica ormai stabilita in Demetz, è enfatizzato e impreziosito dalla dolce precisione con cui sono lavorate alcune parti (che finalmente è dato in parte accarezzare!), diventando figura esistenziale di ogni opera. Quel retro spigoloso, forse indice di interiorità, certo tornasole di una tecnica e del suo carattere tuttaltro che neutro, rimane sempre in attesa di una fine che completi, di un fine che compia. L’idea di un’espressività celata, persino castrata, con il richiamo a zone d’ombra significative e potenti, tornano in modo del tutto diverso nei lavori più recenti. Indagando una sorta di iperdecorazione che, come una maschera o una gabbia, racchiude il volto dei suoi personaggi, l’artista ha aperto un filone nuovo della sua ricerca. I piccoli protagonisti hanno troncato qualunque legame con il mondo degli adulti; non giocano più con strani utensili né si riferiscono a loro attraverso i titoli dei lavori. La condanna all’incomunicabilità è ora più spietata che mai, così come è intensificato il costante dualismo tra attraente ed ostile, nascosto e svelato. Schermate ma non protette, le figure scoprono una bellezza differente, decorativa, floreale quasi liberty, che peculiarmente si fonde con quel loro splendore un po’ lugubre. Il risultato condivide l’eleganza composta del percorso precedente, unendo ad una tenace coerenza il coraggio, prezioso e non sempre comune tra i giovani artisti, di inseguire variazioni anche all’interno di un repertorio a lungo apprezzato.