Gehard Demetz, 01 Dicembre 2005 - 21 Gennaio 2006, Galleria Rubin, Milano
Troppo tardi per le carezze
di Maurizio Sciaccaluga

Gehard Demetz studia e scolpisce nel legno quei processi e quei passaggi che formano e temprano l’uomo, tutti gli istanti e gli stadi dell’esperienza e della conoscenza che finiscono col portare per mano un individuo dall’adolescenza fino alla maturità. Le sue opere – bassorilievi o, più spesso, figure a tutto tondo – esasperando il rapporto tra finito e non-finito, tra materia raffinata e materia appena sbozzata, evidenziano che al centro della riflessione dell’artista c’è proprio la costruzione del corpo e del carattere, che nel mirino del lavoro c’è esattamente il momento della crescita e della consapevolezza. Momento che, notoriamente, è anche atto di guadagno e di perdita: guadagno per quanto riguarda le nozioni e gli apprendimenti, perdita per quanto riguarda l’innocenza e l’apertura mentale. L’autore altoatesino ferma e rende indelebili le pause, le insicurezze, le voglie, i bisogni, le paure e gli entusiasmi che inevitabilmente accompagnano un bambino mentre diventa ragazzo, un ragazzo mentre s’incammina per trasformarsi in uomo, e con l’uso sapiente della materia bruta, del legno non trattato, pone l’accento su quanto ognuno finisce per lasciare dietro sé durante la lunghissima strada. Per esempio, i personaggi a tutto tondo raffigurati nella serie di sculture a grandezza naturale – bimbi e bimbe di sei-dieci anni, arcigni, tesi, nervosi, ansiosi di crescere ma impauriti dai probabili cambiamenti – contrappongono una parte frontale finita, conclusa, limata alla perfezione e curata in ogni piccolo dettaglio – si pensi alle espressioni e alle pieghe delle labbra, alla tensione di dita serrate attorno al nulla – a una parte posteriore dominata da blocchi di legno grezzi, assommati e sovrapposti l’uno all’altro, ancora da lavorare e incidere, simili a quelle impalcature di tubi innocenti che edificano e nascondono le facciate delle case. Se il fronte è l’individuo già formato per la società, istruito, pronto a maturare ed emergere, il retro può essere letto e descritto in due differenti maniere: da una parte come l’insieme delle conoscenze, delle esperienze, delle relazioni, delle notizie che, a blocchi, a pezzi, vanno appunto a prepararlo e istruirlo, dall’altra come la rivelazione della fragilità e dell’instabilità di ogni carattere, di ogni personalità, pronta a disgregarsi e tornare materia bruta in qualunque momento. C’è però anche una terza via per spiegare questo strano rapporto tra pieno e vuoto, tra finito e non-finito, tra figura e geometria che caratterizza i pezzi di Demetz, e questa via è segnata dalle intuizioni steineriane, dagli studi d’inizio Novecento portati avanti dal fondatore di una tra le più importanti scuole di pensiero sulla formazione e il comportamento giovanile. Come Rudolph Steiner, anche l’artista potrebbe essere convinto che crescere significa più perdere che trovare, che la ricchezza estrema di pensiero e di intelligenza è proprio quella del bambino, e dunque quei blocchi ancora da plasmare, da modificare, da corrompere – puri, puliti, perfetti, equilibrati – sono a simboleggiare la ricchezza intonsa dell’individuo non forzato dalla società, lasciato libero di seguire la sua innata creatività, il suo meraviglioso istinto. L’individuo nasce ricchissimo e perfetto, e il suo prendere forma, carattere e aspetto non è altro che un limitare, progressivamente sempre più, le sue capacità. Davanti c’è la bellezza di un viso, di una smorfia, di lunghi capelli, ma è dietro, tra il legno semplice e naturale, che pulsa il miracolo della vita, l’incredibile e straordinaria storia di ogni esistenza. Come ogni creatore, come ogni educatore, come ogni genitore, Demetz sceglie la strade e dunque le forme per i suoi bambini, li forza, anche senza volere li inscatola, e intanto vede la possibilità estrema, la ricchezza infinita frantumarsi, disperdersi, indirizzarsi verso un solo cammino, perdendo così gli altri possibili centomila. Nei pezzi dello scultore il rapporto tra parti lavorate e parti ancora da lavorare non è un contrasto interno alla materia, non evoca i dubbi del creatore di fronte all’idea e alle scelte, non vede la forma liberarsi dal peso dell’informe: piuttosto, è il simbolo di cosa significhi crescere, di quanto paradossale possa risultare l’apprendere e l’imparare. È la storia di un abbandono: quello della purezza (nella forma naturale, squadrata, ancora da modellare) in favore di un carattere, una personalità, una storia. Una soltanto. I pezzi di Gehard Demetz hanno comunque posture strane, caratteristiche, forzate: archi della schiena leggermente esasperati, visi assolutamente preoccupati, occhi insolitamente profondi. Sono così perché coi gesti, le espressioni e gli sguardi cercano un’intesa, o almeno un incontro, con gli spettatori, perché sperano e vogliono entrare in relazione con chi li osserva. Non si tratta, come in gran parte delle opere contemporanee, siano esse figurative, astratte o concettuali, di lavori autosufficienti, incuranti di altre presenze se non della propria, esistenti al di là di altre figure; dichiarano, invece, un bisogno evidente di contatto, di relazione, di rapporto con chi si trova al loro cospetto. Non chiedono di essere guardate ma di interagire con quelli che guardano. La bambina non indossa i suoi primi zoccoletti col tacco alto per proprio piacere, ma per mostrare il suo futuro e inevitabile destino di donna; il bambino cattivo, in disparte, col cappello da asino, non gira con quel buffo copricapo per chissà quale motivo, ma perché gli spettatori si sentano chiamati in causa come giudici ingiusti, perché leggano in lui un destino da emarginato. I lavori, insomma, chiamano lo spettatore, si protendono verso di lui, lo sfidano con gli atteggiamenti affinché questi possa smettere di osservarle con distacco e curiosità e cominci a colloquiare, fremere, cortocircuitare con loro. Lui fa parte del lavoro, è la causa degli atteggiamenti che vede come ogni adulto è causa del comportamento dei bambini. Trattandosi, nella maggior parte dei casi, di figure infantili, se studiate con partecipazione e affetto assumono una valenza del tutto diversa, mutano profondamente, finiscono col suscitare emozioni ancora più forti e assolute: nella loro foga e nel loro desiderio di diventare “grandi” lo spettatore rivede e rivive così la propria ansia d’andare sempre avanti, il proprio impellente bisogno di bruciare i momenti della vita, mentre in quella parte non-finita che le sculture nascondono alle spalle può rivedere quanto ha dimenticato, smarrito, abbandonato. Solo che lo sguardo delle giovani figure di Demetz è l’emblema della determinazione assoluta, è un marchio di decisione irrevocabile – non esistono ripensamenti, tutto è stato già deciso – e pertanto a chi osserva non resta grande margine di manovra e di speranza: le carezze, quelle carezze che tanto sarebbero servite, andavano fatte prima, a suo tempo. Ora, è evidentemente troppo tardi.